senza mandato

Appunti di Gianni Valente

Sic transit gloria Ecclesiae. Kirill, Papa Francesco e le macerie dell’ecumenismo

Nella guerra fratricida dell’Ucraina «l’unico a godere è il diavolo, che già danza sulle teste dei cadaveri, e gioca con il dolore delle vedove, degli orfani e delle madri in lutto». Così aveva detto Anba Raphael, Vescovo copto ortodosso del centro del Cairo, fotografando con lucidità profetica la situazione poche ore dopo l’ingresso dell’esercito russo in territorio ucraino. E se il diavolo adesso gode per il dolore innocente, si frega le mani anche per le conseguenze indirette che quella guerra potrà avere sui tempi lunghi.

Tra le altre cose, le bombe che dilaniano corpi nel territorio ucraino spazzano via dal campo per chissà quanto tempo anche l’attesa – accesasi con il cammino ecumenico iniziato dopo il Concilio Vaticano II – di veder ricomporsi in pienezza l’unità sacramentale tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Sembra sfumare il Kairos che poteva essere colto nel tempo propizio rappresentato dagli ultimi due Pontificati: quello di Benedetto XVI, che anche da cardinale Prefetto dell’ex Sant’Uffizio aveva riproposto la sua famosa “formula-Ratzinger”, secondo cui, riguardo alla dottrina del Primato del Successore di Pietro, «Roma non deve richiedere dall’Oriente niente di più rispetto a quanto era stato formulato e vissuto nel primo millennio»; e il Pontificato di Papa Francesco, che il 30 novembre 2014, parlando al Fanar, davanti al Patriarca ecumenico Bartolomeo, nella festa di Sant’Andrea, aveva detto che per giungere alla piena unità coi cristiani ortodossi la Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune».

Ora la speranza di riconciliarsi col semplice confessare insieme la comune fede degli apostoli sembra essere evaporata. Prima ancora delle bombe in Ucraina, l’avevano già sabotata gli scismi esplosi negli ultimi anni tra il Patriarcato di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, in seno all’Ortodossia.

In una intervista del 2004 sulla rivista 30Giorni, proprio il Patriarca ecumenico Bartolomeo, parlando dello scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, aveva indicato la radice di quella frattura nelle «prime manifestazioni del pensiero mondano nella Chiesa». Nell’esperienza delle Chiese ortodosse, il riferimento alla penetrazione del pensiero mondano nelle dinamiche ecclesiali ha poco a vedere con la tradizionale sudditanza ai poteri temporali che i polemisti cattolici da sempre rimproverano al cristianesimo orientale, e che può essere semplice riconoscimento della propria genetica inermità mondana, la stessa di Gesù e di San Pietro («Il mio regno non è di questo mondo», Gv 18, 36; «Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni istituzione umana», 1Pt 2, 13). A portare rovina e seminare apostasia è la zavorra dell’orgoglio clericale in quanto tale. La hybris che contagia gli apparati ecclesiastici ogni volta che le Chiese, a qualsiasi livello, costruiscono e perseguono un progetto di auto-sufficienza e di auto-affermazione sulla scena del mondo.

Nessuna realtà ecclesiale è immune dalla tentazione di un simile snaturamento, come ripete anche Papa Francesco (citando Henri de Lubac) ogni volta che chiama in ballo la cancrena della «mondanità spirituale», quel «darsi gloria l’un l’altro» da lui riconosciuto come peggiore delle miserie umane e delle ambizioni di potere dei «Papi concubini».

Nel tempo presente, anche i vertici della Chiesa russa hanno manifestato sintomi evidenti e singolari di questa hybris. Non tanto per il semplice fatto di essersi appoggiati al disegno politico del Cremlino per guadagnare prestigio. E nemmeno quando hanno bullizzato qualche Chiesa sorella ortodossa facendo pesare il proprio peso numerico e economico (cosa brutta, ma può essere rubricata nel repertorio delle miserie umane). La hybris si è affacciata quando si è cominciato a pensare, parlare e agire come se, nell’attuale condizione della fede sulla terra, il peso politico del Patriarcato e la strategia politica russa fossero in se stessi fattori di cristianizzazione o di ri-cristianizzazione del mondo.

La Guerra preventiva di Putin e le divisioni del Papa

Il Direttore della CIA William Casey, fervente cattolico, con «la casa piena di statue della Madonna», andò a trovare per la prima volta Giovanni Paolo II il 23 aprile 1981. Ronald Reagan era Presidente degli Stati Uniti d’America da pochi mesi. Il capo dell’Intelligence USA portava con sé materiale fotografico scattato dai satelliti statunitensi, compresa la foto della moltitudine immensa che aveva circondato il Pontefice polacco mentre parlava a Varsavia, nella piazza della Vittoria, nel suo primo viaggio da Papa nella sua terra madre.

Casey incontrò Papa Wojtyla almeno 6 volte. Tra il 1981 e il 1988, anche Vernon Walters (vice-direttore della CIA dal ’72 al’76) fu ricevuto da Giovanni Paolo II con cadenza più o meno semestrale. In quel periodo – come hanno raccontato Carl Bernstein e Marco Politi nel loro libro Sua Santità (1996), al pontificato fu garantito un «accesso senza precedenti» alle informazioni e al materiale raccolto dalla CIA, comprese le immagini satellitari che riprendevano la disposizione di armamenti intorno alla Polonia. A quel tempo – hanno ricostruito i due autori – la politica dell’Amministrazione USA volta a innescare processi di dissoluzione del blocco comunista sottoposto all’Unione Sovietica attribuiva importanza cruciale al potenziale ruolo del Papa venuto dall’Est.

Niente di simile sembra essere accaduto prima dell’invasione dell’Ucraina ordinata da Putin. Negli anni in cui Papa Francesco, magari applaudito da intellettuali e media, lanciava l’allarme sulla “guerra a pezzi” già cominciata e richiamava le responsabilità del traffico d’armi nell’esplosione dei conflitti, nessuno è andato a consultarsi con lui per chiedergli un parere sull’espansione della NATO a Est, avanzata anche negli anni del suo Pontificato (con il Montenegro cooptato nel 2017 e la Macedonia del Nord in fase di adesione).

Profanata, bombardata, ricostruita, abbandonata: il caso emblematico della chiesa armena di Raqqa

A quasi 5 anni dalla cacciata delle milizie jihadiste da Raqqa, la chiesa dei Martiri, che era stata ridotta in macerie, si staglia di nuovo nel centro città in tutto suo splendore. È stata per lungo tempo in mano ai miliziani dello Stato islamico, che la trasformarono in tribunale, e anche da lì dettavano legge e imponevano la loro “giustizia” jihadista. Poi è stata devastata dai bombardamenti a guida occidentale che hanno raso al suolo buona parte del centro urbano, quando si doveva espugnare quella che era stata per anni la capitale-roccaforte siriana del Califfato nero. Negli ultimi anni è stata ricostruita come nuova da un singolare movimento para-militare, i Free Burma Rangers, formatosi nei conflitti tra milizie etniche e esercito birmano, per iniziativa di un pastore evangelico statunitense. Ma i pochi cristiani autoctoni che vivono ancora in città non la frequentano, non vi si celebrano messe, e a utilizzarla di tanto in tanto sono gruppi cristiani evangelici di formazione recente.

La sequenza di cose avvenute negli ultimi anni dentro e intorno a quella chiesa, un tempo officiata da sacerdoti della Arcidiocesi armeno-cattolica di Aleppo, rende quel luogo di culto una specie di emblema delle pressioni, degli interessi contrastanti e dei fattori enigmatici che condizionano la presenza dei cristiani in Siria e in altri scenari mediorientali. «In quella vicenda c’è qualcosa di strano, non si capisce cosa c’è dietro», confida all’Agenzia Fides Boutros Marayati, Arcivescovo armeno cattolico di Aleppo.

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