senza mandato

Appunti di Gianni Valente

Il ricatto d’Occidente sul Vescovo di Roma

La guerra in atto in Ucraina, con il suo carico crescente di morte e distruzione, sta disvelando anche gli scenari reali della condizione del cristianesimo nelle vicende del mondo. Condizione che trova una sua singolare “cartina tornasole” nell’assillante assedio politico-ecclesiastico stretto intorno a Papa Francesco e alcuni suoi collaboratori della Santa Sede per estorcere da loro una esplicita scomunica “ad nationem” e “ad personam” della Russia di Putin e del suo Patriarca Kirill. Assedio destinato probabilmente a accentuarsi, fino a toccare punte d’isteria, dopo l’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 3 maggio, in cui Papa Francesco si dice pronto a volare a Mosca per parlare con Putin.

Non conosce tregua il martellamento politico-mediatico sui Palazzi vaticani per farli allineare a parole d’ordine e strategie messe in campo dai poteri d’Occidente sullo scenario dell’ultima guerra europea. Se ne fanno portavoce anche nunzi, ambasciatori accreditati in Vaticano, vescovi e pezzi di episcopati. Non bastano le parole e i gesti espressi pubblicamente e a ritmo quasi quotidiano dal Papa sul conflitto (da lui definito anche «aggressione armata», «oltraggio a Dio» «tradimento blasfemo del Signore della Pasqua»), i suoi baci alla bandiera ucraina, i suoi continui richiami a fermare il massacro, le sue inascoltate richieste per una tregua pasquale, e quelle a pregare il Rosario durante tutto il mese di maggio per implorare la pace. Tutto questo non è sufficiente. Se quella che dilania l’Ucraina – come ormai ripetono tutti – è una guerra tra la Russia e l’Occidente a guida nord-atlantica, anche il Papa non può credere di farla franca invocando preghiere. Anche lui deve solo far sapere con chiarezza da che parte sta. Deve allinearsi, manifestando il suo endorsement esplicito e chiaro a fianco di chi combatte per la difesa dei “valori occidentali”. Ogni minima esitazione equivale a un tradimento. Merita le rappresaglie che si applicano ai traditori nei tempi di guerra.

«Ciò che il governo USA vuole dal Sommo Pontefice è qualcos’altro: uno yes-man» scriveva lo scrittore e analista statunitense Victor Gaetan nel suo pregevole volume God’s Diplomats, pubblicato meno di un anno fa, dove attesta fin dalle prime pagine quanto il potere nordatlantico abbia sempre avuto come obiettivo costante nei rapporti con la Santa Sede l’allineamento papale e vaticano alle proprie linee strategiche, anche quando esse imboccano la via della soluzione dei problemi per via militare.

La storia degli ultimi decenni, ripercorsa anche nello studio di Victor Gaetan, attesta che il trattamento riservato al Papa da circoli e apparati d’Occidente risponde a riflessi condizionati conosciuti da tempo. Non è una questione personale. Non c’entrano gli orientamenti individuali del Papa regnante, le simpatie terzomondiste e “comuniste” attribuite a Bergoglio da tanti suoi detrattori. Tutt’altro. Per anni, anche tanti oligarchi dell’Occidente globale hanno vezzeggiato e alimentato l’icona pop del Papa scapigliato, descamisado romantico. Facevano la fila per fare la foto con lui, finché riuscivano a inquadrare gesti e parole pontificie nell’orizzonte dell’occidentalismo compassionevole, anche in versione liberal. Ma se poi dalla centrale parte l’ordine di allinearsi conto il nuovo “asse del male” russo-cinese, e il Papa non si schiera senza esitazioni contro Russia e Cina, allora i giri di valzer finiscono e possono scattare sanzioni ad personam anche contro di lui. Se va bene, esce dai riflettori – dopo tante chiacchiere sul “soft power papale” – e le sue parole cadono nel vuoto. Se va peggio, si arriva a accusare il Papa di cerchiobbottismo diplomaticista o di dissimulato filo-putinismo.

Quando Ratzinger indica la luna

Joseph Ratzinger ha compiuto 95 anni. È nato il 16 aprile 1027 nel paesino bavarese di Marktl sull’Inn, in un mondo diverso per mille cose da quello di oggi. E anche la lunga durata della sua esistenza, con i quasi otto anni di pontificato superati dagli oltre nove anni di “pontificato emerito”, inscrive tutta la sua vita nel mistero palpitante della Chiesa degli ultimi tempi.

Con quel mistero, Joseph Ratzinger ha avuto familiarità fin dall’inizio. Fin da quando, a poco più di vent’anni, l’invidia clericale di vecchi professori neo-scolastici lo chiamava con disprezzo «il teenager teologico». Grazie al suo sensus Ecclesiae, a meno di 25 anni, nella breve esperienza pastorale in una parrocchia del centro di Monaco di Baviera aveva percepito in tanti ragazzi che frequentavano la chiesa una estraneità sostanziale alla fede e al cristianesimo, dissimulata in riti e pratiche imposti dalla convenzione sociale. Già in quell’esperienza – come poi spiegò in un suo scritto sui «nuovi pagani» – aveva intuito che il volto del nuovo paganesimo non era «l’ateismo orientale», e nemmeno l’esito dei processi di scristianizzazione iniziati dal Rinascimento. Quello che lui aveva visto già allora era un «paganesimo intra-ecclesiale», attecchito innanzitutto nelle civilizzazioni dove l’appartenenza ecclesiale si era configurata come «una necessità di fatto politico-culturale», come «un dato a priori della nostra esistenza specificamente occidentale». Un “a priori” di ordine politico-culturale che non aveva niente a che fare con l’attesa e la speranza di salvezza eterna.

Con la stessa intimità al mistero della Chiesa, Joseph Ratzinger ha condiviso la grande, luminosa e liberante intuizione del Concilio Vaticano II: la scoperta che la strada più feconda per il presente e il futuro del cristianesimo era il ritorno alle sorgenti (ressourcement), per riassaporare tutta l’ampiezza della Tradizione, a partire dai Padri della Chiesa, e liberarsi così anche dall’equivoco che aveva spacciato come “Tradizione” le forme storiche codificate degli apparati ecclesiastici degli ultimi secoli. Grazie al “ritorno alle sorgenti” – questa era la scommessa del Concilio – la Chiesa avrebbe saputo abbracciare anche le istanze più feconde del moderno, Senza rinchiudersi nella sterile difesa degli antichi “regimi di cristianità”, e liberandosi anche dalla pretesa di colonizzare cristianamente il moderno con progetti di nuove egemonie culturali.

LE ARMI ALL’UCRAINA E IL FANTASMA DELLA “GUERRA GIUSTA”

«Il mondo è in maniera schiacciante dalla parte di Dio». Così pontificava il Presidente USA George Bush, mentre i bombardieri dell’operazione Desert Storm iniziavano a martellare l’Iraq di Saddam Hussein. Correva l’anno 1991. Alcuni mesi prima, nell’agosto del 1990, il rais iracheno aveva trascinato il suo Paese nella disastrosa invasione e annessione del Kuwait. La campagna militare avviata da una coalizione di 35 stati sotto l’egida degli USA e con il via libera dell’ONU aveva l’obiettivo dichiarato di “ripristinare la giustizia”, restaurando la sovranità violata del piccolo Emirato invaso. Nelle sue esternazioni, riportando in maniera confusa le dritte di qualche suggeritore teologico, il Presidente USA arrivò anche a citare «Tommaso Aquinate» e un certo «Ambrogio Agostino» (sic) per argomentare che anche la dottrina cristiana giustificava l’uso delle armi come strumento per ripristinare la giustizia violata.

Davanti alla guerra d’aggressione in atto in Ucraina, chi sostiene la scelta occidentale di inviare armi e altri strumenti di guerra ai combattenti ucraini per alimentare la loro resistenza procede lungo le stesse linee di pensiero a cui attingeva Bush padre più di 30 anni fa, anche quando evita di evocare il fantasma politicamente scorretto della “Guerra Giusta”. L’effetto collaterale che si punta a ottenere è anche quello di far apparire come pacifismo parolaio e imbelle ogni esitazione manifestata davanti alle armi inviate in Ucraina dai Paesi Nato (forniture confermate anche nel vertice a Bruxelles di giovedì 24 marzo). Per non parlare di Papa Francesco, che in una simile situazione continua addirittura a riconoscere come nefaste le politiche di aumento delle spese militari (linea imboccata, sull’onda del conflitto in Ucraina, da diversi Paesi europei, compresa l’Italia).

Chi sostiene l’urgenza di armare i resistenti ucraini unisce spesso argomenti di principio (fermare l’aggressore, difendere l’aggredito, legittima difesa) con richiami di forte impatto allo scempio che i media mostrano ogni giorno, da più di un mese. Ma quando qualcuno si spinge a cercare nella dottrina cristiana i principi per giustificare tale scelta urgente, finisce – come spesso accade – per manipolare in maniera illegittima e ideologica la stessa dottrina che invoca come fondamento dei propri argomenti (magari approfittando della ignoranza generalizzata intorno ai tratti anche più elementari di tale dottrina, o giocando di sponda con il vezzo di ridurre anche brandelli di dottrina in slogan accattivanti a misura di twitter).

In primis, conviene ricordare che Agostino e Tommaso sono vissuti in epoche in cui fanti e cavalieri combattevano per lo più con spade, lance e archi, catapulte. L’era atomica ha introdotto un fattore nuovo che modifica ogni scenario di guerra e che non è ragionevole ignorare. Lo accennava autorevolmente già Papa Giovanni XIII nell’enciclica Pacem in terris, notando che «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Pacem in terris, 67). Anche in una nota della Costituzione conciliare Gaudium et Spes (curiosamente dimenticata da commentatori con ostentate referenze “conciliari” che oggi giustificano l’invio di armi alle forze ucraine) si legge che «Nella nostra epoca, che si gloria della forza atomica, è contrario alla ragione essere sempre predisposti alla guerra per recuperare i diritti violati».

Se c’è un dato elementare e incontestabile della guerra in atto in Ucraina, è che essa contempla fin da prima del suo inizio come suo possibile esito l’apocalisse nucleare. Ma pur riconoscendo come ancora validi, nonostante l’era atomica, i quattro “principi” che legittimano secondo la dottrina cattolica l’uso delle armi, essi vanno comunque verificati empiricamente nelle circostanze date di questa guerra, la guerra che sta divampando in Ucraina.

La prima condizione è che la reazione armata sia la risposta a una grave violazione a un’ingiustizia inaccettabile da cancellare. E in effetti, l’invasione armata dell’Ucraina da parte della Russia di Putin si configura come una grave violazione del diritto internazionale, che sta seminando morte, odio e devastazione.

La seconda condizione è che siano state tentate tutte le vie per prevenire il conflitto, o per incanalare lo scontro, una volta iniziato, verso una soluzione negoziata. Già questa condizione non sembra abbinarsi con la scelta di Paesi occidentali di coinvolgersi direttamente sul piano militare, inviando armi e istruttori per i combattenti ucraini.

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