Albino Luciani sarà proclamato beato a Roma, il prossimo 4 settembre. In vista della beatificazione, la Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I – istituita da Papa Francesco nel 2020 con l’obiettivo di custodire il patrimonio degli scritti e promuovere la conoscenza degli insegnamenti del suo predecessore – ha promosso una Giornata di studi interamente dedicata al Magistero di Papa Luciani, dal titolo: “I sei «vogliamo». Il Magistero di Giovanni Paolo I alla luce delle carte d’archivio”. L’evento avrà luogo venerdì 13 maggio a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana. I lavori del Convegno di Studi saranno aperti dal Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, Presidente della Fondazione Giovanni Paolo I, e saranno coordinati da Stefania Falasca, Vicepresidente della stessa Fondazione vaticana.
La giornata di studi, realizzati alla luce della documentazione dell’Archivio Privato Albino Luciani – oggi patrimonio della Fondazione vaticana – offrirà l’occasione di cogliere anche l’apertura missionaria percepibile nel sensus Ecclesiae di Giovanni Paolo I, a partire dai sei «vogliamo» del messaggio Urbi et orbi pronunciato da papa Luciani l’indomani della sua elezione, il 27 agosto 1978.
Il pontificato di Albino Luciani è durato solo 33 giorni. L’intensità del suo “sentire” missionario non ha avuto il tempo di ispirare atti e mostrare priorità da perseguire durante il suo breve ministero come Vescovo di Roma. Prima dell’elezione pontificia, la sua vita e la sua vocazione ecclesiale si sono svolte per lo più entro i confini del Veneto. Tratti esistenziali e dati biografici che per paradosso rendono ancor più esemplare e carica di suggestioni per il presente la sua sollecitudine per la dinamica missionaria della Chiesa.
Dalle riflessioni affidate ai suoi messaggi per la giornata missionaria, emergono in maniera semplice e concreta i criteri con cui il vescovo e Patriarca Luciani considera l’opera missionaria: la “missio ad gentes”, nei riflessi anche impliciti contenuti nelle riflessioni missionarie di Luciani, ha come obiettivo e criterio quello di annunciare e testimoniare il Vangelo a persone, comunità e popolazioni che non condividono la fede cristiana e non fanno parte della Chiesa. Un ambito proprio, non separato ma distinto e non pienamente identificabile con l’ordinaria attività pastorale pastorale compiuta nella propria diocesi.
Negli scritti di Albino Luciani c’è un testo chiave per cogliere il suo sguardo sull’opera missionaria: è la lettera-resoconto da lui scritta dopo il viaggio compiuto in Burundi, e indirizzata il 20 ottobre 1966 a tutti gli appartenenti alla diocesi di Vittorio Veneto. Il testo è stato esaminato con acume dal professor Roberto Morozzo della Rocca, in un saggio pubblicato nel 2009 e intitolato “L’orizzonte missionario di Albino Luciani”.
Il Vescovo Luciani si recò nel Paese centro-africano dal 18 al 31 agosto 1966 per incontrare tre sacerdoti della sua diocesi che operavano come missionari “fidei donum” nella diocesi burundese di Ngozi, e che avevano invitato il loro Vescovo a visitare il Paese dei Grandi Laghi.
La lettera si presenta come un resoconto dettagliato di fatti, incontri, circostanze che hanno scandito la trasferta africana di Luciani. Il vescovo fa lievi accenni alla situazione politica del Paese, al colonialismo e alla de-colonizzazione, all’indipendenza da poco raggiunta, ai problemi etnico-tribali tra hutu e tutsi. Nel 1965 in Burundi era già instaurata la dittatura militare della minoranza tutsi, in reazione alle stragi di tutsi compiute dagli hutu nel confinante Ruanda. Ma nel 1966 l’avvenire tragico di sterminio che si va preparando nei due Paesi africani non è ancora immaginabile. Il vescovo Luciani percepisce quello burundese come un popolo unito, fiero della sua storia e dele sua tradizioni. Il suo approccio è spirituale e pastorale, non politico. E la sua ricostruzione si concentra sulle dinamiche missionarie.
Luciani descrive i metodi di catechesi, l’organizzazione delle parrocchie, la celebrazione delle messe, l’amministrazione dei sacramenti. E in un passaggio chiave del resoconto, che conviene riportare quasi per esteso, emerge tutta la sua refrattarietà a descrivere e giudicare l’opera apostolica dei missionari secondo griglie ideologiche e astrazioni concettuali:
«Anche in Burundi – scrive Luciani – ho sentito propormi le domande che circolano in tutto il mondo: Il sistema delle zone di influenza missionaria affidate a istituti missionari non è superato? (…). Non si sono i missionari comportati troppo paternalisticamente col clero indigeno? L’innegabile bene che hanno fatto sotto il regime coloniale, non l’hanno fatto appoggiandosi troppo a quel regime? Lei, che è veneto, non è d’accordo coi princìpi esposti dal cardinal Costantini in Foglie secche, che sono poi i grandi princìpi di padre Lebbe? L’ardente missionario belga naturalizzato cinese aveva infatti sostenuto: a) la Chiesa non può (in Cina, in Congo, nel Burundi) fare la figura di conquistatrice straniera in terra conquistata e sottomessa; b) non si leghino le sorti del cristianesimo alle sorti della cultura europea; c) si tenga per fermo che il clero autoctono conosce a fondo il Paese, la sua cultura, la sua mentalità, la lingua in tutte le sue sfumature i suoi problemi, e che certe situazioni umane le intuisce per istinto, perhé nativo, mentre gli altri non le possono penetrare; d) una volta dunque posto un clero autoctono, senza por tempo in mezzo, dai suoi ranghi si scelgano i vescovi, e) sotto questi vescovi i missionari bianchi accettino di lavorare, adattando alla mentalità e alle direttive delle eccellenze nere o gialle la loro maniera di vedere e di lavorare, dimenticando ch’essi sono forse più colti e più ricchi!
Quante domande! E io rispondevo: non sono competente, sono problemi più grandi di me: Da poveruomo, però, mi sembra di dover dare questa risposta: gli istituti missionari hanno fatto tanto del bene, ne stanno facendo, ne faranno ancora; mi sembra leggerezza imperdonabile quella che li proclama sorpassati e getta semi di dubbio e di sconforto in tanti giovani sacerdoti e studenti, che hanno lasciato la famiglia e la diocesi per un istituto missionario solo per amore di Gesù Cristo e delle anime. C’è enorme bisogno di braccia, di preghiere, di mezzi; c’è lavoro per tutti; bisogna che gli istituti missionari continuino sia pure con qualche correttivo e accorgimento. Vedo che monsignor Martin, vescovo di Bururu, ha chiamato di recente i padri saveriani a lavorare accanto ai suoi padri bianchi e ai nativi. È un esempio. Monsignor Makarakiza chiama insieme nuovi istituti e sacerdoti diocesani “prestati”; è un altro esempio. “Dummodo Christus annuntietur”, diceva San Paolo. Diciamolo anche noi».
Dummodo Christus Annuntietur. Purché Cristo sia annunciato. Citando San Paolo nella Lettera ai Filippesi, Luciani difende i missionari da stroncature corrosive e sommarie che colpivano in quegli anni l’opera missionaria in quanto tale, prendendo a pretesto i contributi critici sull’intreccio tra colonialismo e attività missionarie offerti in precedenza dal missionario belga Frédéric-Vincent Lebbe e dall’Arcivescovo Celso Costantini (primo Delegato apostolico in Cina divenuto poi Segretario della Congregazione di Propaganda Fide). Luciani accoglie i rilievi di Costantini e Lebbe, ma le intreccia con potenti dosi di realismo e concretezza, affinché quelle suggestive intuizioni fiorite dal cuore dell’esperienza missionaria non si trasformino in nuovi conformismi ideologici e in schemi astratti da applicare in maniera violenta alla realtà delle cose, col rischio di far seccare germogli ancora vitali di nuove vocazioni missionarie.
Lebbe e Costantini, le due grandi figure citate da Luciani, avevano lanciato un allarme potente sugli effetti negativi di un un certo “imperialismo missionario” legato al colonialismo. Luciani non discute la bontà e la fecondità delle loro esperienze e dei loro apporti critici. Ma vuole ribadire che l’opera dei missionari rimane comunque una cosa buona. E non accetta che le parole di Lebbe o Costantini siano usate come strumenti di astratte dialettiche per gettare ombre di sospetto generiche quanto ingenerose sulla intera tradizione missionaria del cattolicesimo.
Luciani ha la preoccupazione di ribadire che l’opera svolta dai missionari, con tutte le sue ombre legate alle miserie umane e alle congiunture storiche, non puo essere considerata di per se come una prassi di cui occorrerebbe quasi vergognarsi. Il futuro Pontefice fa suo il processo di purificazione dei metodi e delle pratiche missionarie favorito anche dalle intuizioni di Lebbe e Costantini. Riconosce e anzi esalta la progressiva maturazione delle Chiese locali in “terra di missione”, Chiese che non devono essere sottoposte da parte dei missionari stranieri a nessuna forma di sudditanza. Il servizio missionario – rimarca l’allora Vescovo di Vittorio Veneto nella sua Lettera – va reso come servizio umile e sottomesso alle autorità ecclesiastiche locali, man mano che esse si sviluppano e si strutturano. Quella resa dai missionari è un’opera fraterna, gratuita e disinteressata. Nel contempo, il realismo cristiano diffida delle mitologie di chi esalta in maniera strumentale la presunta, primigenia purezza delle Chiese locali contro tutto ciò che viene identificato come “il vecchio”, rappresentato in particolare dai missionari. Secondo lui, la cura e la vicinanza per favorire la crescita delle comunità ecclesiali locali può e deve approfittare dell’apporto offerto da chiunque sia mosso dall’autentica Caritas, da chiunque invochi con sincerità di cuore il nome di Cristo. Senza mitizzare nessuno, e senza escludere nessuno. Senza costruire dialettiche artificiali tra Chiese locali e missionari “stranieri”. C’è lavoro per tutti, “Dummodo Christus annuntietur”. Questo è il criterio per guardare e giudicare l’opera missionaria. riconoscendo che solo la grazia dello Spirito di Cristo può unire i cuori di persone lontane per indole, cultura e mondi d’appartenenza, come già avvenne a Pentecoste.
Nella Lettera “missionaria” alla diocesi di Vittorio Veneto, Albino Luciani manifesta lo stesso approccio realista e pragmatico rispetto alla questione dell’incontro tra l’annuncio evangelico e le culture e tradizioni locali, riconoscendo che tale incontro è fecondo quando innesca processi non traumatici e progressivi di cambiamento delle dinamiche sociali, familiari e interpersonali che non appaiono conformi al Vangelo.
Nei diversi messaggi scritti in occasione delle annuali Giornate Missionarie Mondiali – nota il saggio di Morozzo della Rocca – si può registrare con più evidenza la “conversione conciliare” vissuta dal Vescovo Luciani, grazie alla sua partecipazione al Concilio Vaticano II. In particolare, nei messaggi missionari scritti dopo il 1968 Luciani si rammarica dello spreco di tempo e energie spesi nelle estenuanti discussioni intra-ecclesiali. Un ripiegamento, una introversione che fa apparire tanti ambiti ecclesiali come club di perditempo, dimentichi del fatto che l’unica missione per cui esiste la Chiesa è annunciare il Vangelo di Cristo nel mondo. In tale prospettiva, Luciani valorizza le Comunità di Base che ha modo di incontrare in occasione di un viaggio in Brasile compiuto nel novembre 1975 come Patriarca di Venezia, con l’intento principale di incontrare le comunità di immigrati veneti radicatesi da decenni nel grande Paese sudamericano. Nelle Comunità di Base brasiliane l’allora Patriarca di Venezia intravede i tratti di una vita ecclesiale che fiorisce nel quotidiano intorno ai sacramenti e alla Parola di Dio, in analogia a quanto è narrato negli Atti degli Apostoli. L’esperienza delle Comunità di Base brasiliane gli appare autenticamente evangelica, e per questo anche lontana dalle sue mitizzazioni in chiave ideologica che circolano in alcuni ambienti ecclesiastici europei.
Nell’esperienza brasiliana, l’allora Patriarca di Venezia consolida la sua amicizia con il Cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider, Arcivescovo di Fortaleza, allora Presidente del Celam (Conferenza dei Vescovi latinoamericani), che lo accompagna durante la visita. Nel Conclave dell’agosto 1978, che lo eleggerà Papa, il Patriarca Luciani darà il suo voto fino all’ultimo proprio a dom Aloisio.
Negli anni che precedono il suo breve Pontificato, Albino Luciani, Vescovo del Concilio Vaticano II, ha seguito la bussola del “ritorno alle sorgenti” conciliare anche per rinnovare il suo cuore missionario, e attestare che la gioia di annunciare il Vangelo è il punto sorgivo di ogni autentica avventura apostolica, e la custodisce da ogni rischio di astrazione e dissipazione. Anche il suo sguardo sulla missione della Chiesa rende attuale la figura de Albino Luciani, e si offre alla Chiesa di oggi come dono fecondo del tempo breve e intenso da lui vissuto come Successore di Pietro.