La guerra in atto in Ucraina, con il suo carico crescente di morte e distruzione, sta disvelando anche gli scenari reali della condizione del cristianesimo nelle vicende del mondo. Condizione che trova una sua singolare “cartina tornasole” nell’assillante assedio politico-ecclesiastico stretto intorno a Papa Francesco e alcuni suoi collaboratori della Santa Sede per estorcere da loro una esplicita scomunica “ad nationem” e “ad personam” della Russia di Putin e del suo Patriarca Kirill. Assedio destinato probabilmente a accentuarsi, fino a toccare punte d’isteria, dopo l’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 3 maggio, in cui Papa Francesco si dice pronto a volare a Mosca per parlare con Putin.
Non conosce tregua il martellamento politico-mediatico sui Palazzi vaticani per farli allineare a parole d’ordine e strategie messe in campo dai poteri d’Occidente sullo scenario dell’ultima guerra europea. Se ne fanno portavoce anche nunzi, ambasciatori accreditati in Vaticano, vescovi e pezzi di episcopati. Non bastano le parole e i gesti espressi pubblicamente e a ritmo quasi quotidiano dal Papa sul conflitto (da lui definito anche «aggressione armata», «oltraggio a Dio» «tradimento blasfemo del Signore della Pasqua»), i suoi baci alla bandiera ucraina, i suoi continui richiami a fermare il massacro, le sue inascoltate richieste per una tregua pasquale, e quelle a pregare il Rosario durante tutto il mese di maggio per implorare la pace. Tutto questo non è sufficiente. Se quella che dilania l’Ucraina – come ormai ripetono tutti – è una guerra tra la Russia e l’Occidente a guida nord-atlantica, anche il Papa non può credere di farla franca invocando preghiere. Anche lui deve solo far sapere con chiarezza da che parte sta. Deve allinearsi, manifestando il suo endorsement esplicito e chiaro a fianco di chi combatte per la difesa dei “valori occidentali”. Ogni minima esitazione equivale a un tradimento. Merita le rappresaglie che si applicano ai traditori nei tempi di guerra.
«Ciò che il governo USA vuole dal Sommo Pontefice è qualcos’altro: uno yes-man» scriveva lo scrittore e analista statunitense Victor Gaetan nel suo pregevole volume God’s Diplomats, pubblicato meno di un anno fa, dove attesta fin dalle prime pagine quanto il potere nordatlantico abbia sempre avuto come obiettivo costante nei rapporti con la Santa Sede l’allineamento papale e vaticano alle proprie linee strategiche, anche quando esse imboccano la via della soluzione dei problemi per via militare.
La storia degli ultimi decenni, ripercorsa anche nello studio di Victor Gaetan, attesta che il trattamento riservato al Papa da circoli e apparati d’Occidente risponde a riflessi condizionati conosciuti da tempo. Non è una questione personale. Non c’entrano gli orientamenti individuali del Papa regnante, le simpatie terzomondiste e “comuniste” attribuite a Bergoglio da tanti suoi detrattori. Tutt’altro. Per anni, anche tanti oligarchi dell’Occidente globale hanno vezzeggiato e alimentato l’icona pop del Papa scapigliato, descamisado romantico. Facevano la fila per fare la foto con lui, finché riuscivano a inquadrare gesti e parole pontificie nell’orizzonte dell’occidentalismo compassionevole, anche in versione liberal. Ma se poi dalla centrale parte l’ordine di allinearsi conto il nuovo “asse del male” russo-cinese, e il Papa non si schiera senza esitazioni contro Russia e Cina, allora i giri di valzer finiscono e possono scattare sanzioni ad personam anche contro di lui. Se va bene, esce dai riflettori – dopo tante chiacchiere sul “soft power papale” – e le sue parole cadono nel vuoto. Se va peggio, si arriva a accusare il Papa di cerchiobbottismo diplomaticista o di dissimulato filo-putinismo.
Finora, nella fragilità oggettiva della sua condizione, Papa Francesco resiste alla nuova ondata di pressioni e ricatti di marca bellicista. Ciò non accade per studiata strategia, per testardaggine porteña o camaleontismo latino. Accade in primis perché lui di mestiere non fa il guru di una lobby politico-religiosa di fabbricazione occidentale. Di mestiere, fa il Vescovo di Roma. E il suo mestiere comporta dei risvolti.
In virtù della sua fides romana, il Vescovo di Roma continua a trattare da fratello anche Kirill, il Patriarca di Mosca. Parlandogli da fratello, può permettersi di accantonare il galateo formalista delle cortesie ecumeniste, e dire al Patriarca di Mosca anche parole dirette e non ruffiane, come si fa tra fratelli. Parole come quelle da lui usate usate nella video-chiamata avuta con Kirill, e riportate anche nell’intervista al Corriere: «I primi venti con una carta in mano [Kirill] mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il Patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin».
Il Papa si accosta con schiettezza fraterna e allarmata alla tragedia attraversata dalla Chiesa russa, simile alle tragedie vissute in altri contesti da tante comunità ecclesiali. Non applica alla vita delle Chiese la logica dello scontro di apparati. Non scimmiotta lo schema di Yalta in versione clericale. Lui in passato non ha mai strizzato l’occhio alle fantasie dei cristianisti ideologici occidentali che fino a poco tempo fa esaltavano anche la possibile convergenza-alleanza politica con l’Ortodossia russa nelle battaglie muscolari contro la decadenza morale del mondo: E adesso che vecchi amiconi cattolici di Kirill il reietto fanno finta di non averlo mai conosciuto, il Papa non sisi unisce al lobbismo applicato alle dinamiche ecclesiali, alla liturgia stucchevole delle liste di proscrizione, alle raccolte di firme per espellere i russi da qualche parlamentino ecumenicista.
Un altro risvolto legato al mestiere del Vescovo di Roma è quello che anche Papa Francesco, come tanti suoi predecessori, continua a mostrare alle elìte occidentali a guida nord-atlantica: la semplice, ovvia attestazione che il Papato e la Chiesa cattolica NON sono CONTRO l’Occidente, ma NON sono Occidente. Si tratta di un’evidenza elementare, un dato che sta nella natura delle cose, e che nel contempo è anche un portato della storia. Un’impronta genetica riscoperta con luminosa evidenza lungo il faticoso percorso storico compiuto dalla Chiesa cattolica negli ultimi cento anni, traendo vantaggio anche dalla fine dello Stato pontificio.
Che la Chiesa cattolica non sia Occidente lo ha detto già Benedetto XV, il Papa della prima Guerra Mondiale, che con la Lettera apostolica Maximum Illud (1919) aveva anche contrastato le dinamiche che riducevano l’opera missionaria della Chiesa a espressione e strumento dell’imperialismo coloniale delle potenze occidentali.
Nel 1951, quando in Corea la Guerra Fredda tra Occidente e comunismo era entrata nella sua atroce fase militare (vissuta e raccontata come una lotta apocalittica contro il male), lo stesso Pio XII si era sottratto alle insistenze del Presidente USA Henry Truman, che avrebbe voluto arruolarlo come “guida spirituale” del cosiddetto mondo libero. Le parole pronunciate da Papa Pacelli nel radiomessaggio di Natale del 1951 ribadirono che la Chiesa e la sua missione nella storia avevano una natura propria, imparagonabile rispetto agli ordinamenti civili e ai regni di questo mondo: «Uomini politici, e talvolta perfino uomini di Chiesa, che intendessero fare della Sposa di Cristo la loro alleata o lo strumento delle loro combinazioni politiche nazionali ed internazionali – disse il Papa della scomunica ai comunisti – lederebbero l’essenza stessa della Chiesa, arrecherebbero danno alla vita propria di lei. In una parola, l’abbasserebbero al medesimo piano, in cui si dibattono i conflitti d’interessi temporali. E ciò è e rimane vero anche se avviene per fini ed interessi in sé legittimi». Lo stesso criterio nei rapporti con il potere d’Occidente – come documenta anche Victor Gaetan nel suo studio – è stato seguito da Papa Roncalli, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Lo stesso Giovanni Paolo II, celebrato nei circoli nord-atlantici come co-protagonista dei processi storici sfociati nel collasso del comunismo sovietico e est-europeo, aveva marcato inequivocabilmente le distanze dalle guerre occidentali a guida USA iniziate con il Desert Storm contro il rais iracheno Saddam Hussein.
Nelle parole e nei gesti di Papa Francesco davanti alla tragedia ucraina riecheggiano atti e pronunciamenti messi in campo in situazioni analoghe dai suoi predecessori. Vi si ritrova anche il coraggio di Paolo VI, che riuscì a garantire la presenza dei rappresentanti ortodossi russi al Concilio Vaticano II, assicurando che l’assemblea conciliare non sarebbe servita come cassa di risonanza per lanciare altisonanti condanne politico-teologiche contro il comunismo.
Nel portare avanti in questo modo il suo mestiere, Papa Bergoglio ripete che il compito del Vescovo di Roma non è quello di impartire ai fratelli ortodossi lezioni di modernizzazione occidentale. Seguendo la sua via, il Vescovo di Roma suggerisce anche dove e come potrebbero un giorno riattecchire i germogli di un nuovo ecumenismo. Se e quando sarà passata la tribolazione che ora squassa le Chiese ortodosse, cattolici e ortodossi potranno eventualmente riprendere il cammino verso la piena unità ripartendo non da nuove trovate teologiche, o da alleanze strategiche di marca politica tra presunte “potenze spirituali”, e nemmeno dalla condivisione delle “buone pratiche” su pace, giustizia e salvaguardia del Creato. Sarà molto più utile e fecondo riconoscersi nella propria disarmata povertà, per lo più ignorata come “irrilevanza” dai poteri del mondo, e consolata dai doni della grazia. («Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù». Atti degli Apostoli 5, 41).
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