Papa Francesco, nella serata di domenica 6 febbraio, ha rilasciato in collegamento da Santa Marta una lunga intervista al conduttore Fabio Fazio, nel corso di Che Tempo Che Fa, lo storico programma-cult trasmesso su RaiTre.
Per come è andata, e per quel che vale, l’irrituale ospitata televisiva del Vescovo di Roma ha comunque acceso lampi rivelatori sulla corrente stagione ecclesiale.
Nei circa cinquanta minuti di intervista, Papa Francesco ha parlato da prete. Ha risposto alle domande a partire dal carattere che connota più intimamente la sua identità personale: il fatto di essere un sacerdote cattolico. Un pastore in cura di anime. Non si è mai discostato da questo tratto sorgivo della sua persona, neanche quando ha parlato delle guerre e delle migrazioni, che sono anche grandi questioni politiche e geopolitiche.
Il Papa ha ripetuto che «Senza la carne di Cristo non c’è Chiesa possibile, senza la carne di Cristo non c’è redenzione possibile».
Quando gli è stato chiesto di dare un’immagine della Chiesa, ha scelto quella della Chiesa «in pellegrinaggio».
Ha detto che pregare è fare come «il bambino, che chiama papà e mamma quando si sente limitato, impotente», e magari quando fa domande non aspetta nemmeno le risposte, perché in realtà quello che vuole «è che lo sguardo del papà sia su di lui». Così, ricorrendo a un’immagine familiare, ha detto il cuore della preghiera cristiana, imparagonabile a ogni cammino di ostinata introspezione religiosa.
Il Papa, parlando da prete, ha acceso e tenuto desta per più di 50 minuti l’attenzione di una moltitudine impressionante di persone. Secondo i dati d’ascolto, l’intervista papale su RaiTre è stata seguita da più di 6 milioni e 300mila spettatori (25,4 di share), con un picco di 8,7 milioni (share 32,3). Il precedente che viene in mente è quello degli impressionanti dati di ascolto raggiunti dalle messe di Santa Marta trasmesse ogni giorno in diretta sui RaiUno, alle 7 del mattino, durante i primi mesi della pandemia.
L’ampiezza della platea di spettatori sintonizzatisi su Raitre per ascoltare il Papa non era un dato scontato. Se si decide – con scelta ovviamente opinabile – di rilasciare interviste inserite nella ordinaria programmazione televisiva, occorre volenti o nolenti accettare anche le regole implacabili del gioco degli ascolti. Interviste televisive concesse da Papa Bergoglio a altre emittenti, impacchettate in format più elaborati, avevano in alcuni casi ottenuto riscontri d’ascolto ben meno rilevanti.
Un altro indizio rivelatore emerso dopo l’ospitata papale a Che tempo che fa è stata la congerie di reazioni critiche e commenti negativi di diversa provenienza suscitati dal la trasmissione.
Alcuni arruolati in servizio permanente nel tiro al Bergoglio hanno incluso l’intervista e pure l’intervistatore come nuovi bersagli del solito lancio preventivo di siluri. E’ apparsa una nuova sfilza di articoli e slogan precotti, quelli dove si infilza come buonismo globalista ciò che è, semplicemente, cristianesimo. Alcuni commenti sembravano essere approdati ai desk redazionali prima ancora della messa in onda dell’intervista papale.
Stavolta, alle solite menate su Bergoglio che «banalizza la fede» si sono sommati i mugugni e le stizze della montante schiera di detrattori progressivi e illuminati, pronti a accomunare il Papa e il suo intervistatore nel medesimo sdegno per non aver toccato nella loro conversazione argomenti “cruciali” e questioni scomode. Roba tipo il palazzo di Londra, le riforme annaspanti, il broker Torzi, gli abusi sessuali con annesse accuse di copertura dei pedofili sparate sul Papa emerito, il celibato facoltativo dei preti, il sacerdozio femminile, il potere di donne e laici nella Chiesa, le benedizioni agli amori gay, gli aggiornamenti dottrinali sull’omosessualità, ecc ecc ecc.
Di solito i nuovi fustigatori sono bergoglisti ideologici pentiti che si struggono per l’ “occasione persa”. O continuano a incalzarlo, rinfacciandogli non sta rispettando il programma. Qualcuno ha bullizzato Fazio per non aver fatto la domanda pruriginosa. Qualche ardito anglofono ha tirato in ballo l’espansivo inconscio familista italico, che avrebbe steso il suo velo di protezione pure sul Papa.
Stroncature e reazioni allergiche all’ultima intervista papale, da qualsiasi parte provengano, lasciano trasparire lo stesso riflesso condizionato: la voglia di tenere il Papa regnante ben avvolto nel simulacro del Grande Riformatore (o del Grande Guastatore, a seconda dei punti di vista). L’impulso è quello di non schiodarlo mai dall’immagine del castigamatti, il fustigatore arrivato a stravolgere l’ordinarietà della Chiesa con effetti speciali. A questo schema prestabilito avrebbe dovuto rispondere anche il copione dell’intervista ospitata nel salotto buono di Fazio. Se il Papa parla da prete, sfugge alla presa. Lo schema salta.
Il Papa regnante, in questi anni, non si è sottratto a domande fatte a tutto campo e senza accordi preventivi anche su crimini e scandali clericali, formulate talvolta con toni saccenti e sconvenienti. La frenesia di rivederlo messo sotto torchio e il fastidio per l’occasione persa esprime l’habitus interiorizzato da un ceto professionalizzato di soggetti e commentatori assuefatti alla rappresentazione polarizzata e sovraeccitata della temperie ecclesiale degli ultimi anni. Quelli che si muovono bene tra le onde della sempre enfatizzata sequenza di “colpi di scena” e di “eventi epocali”. Il meccanismo della fibrillazione indotta ormai è oliato e procede per moto inerziale, comodo, a suo modo rassicurante. Con un costante bisogno di consumare incidenti, guerre tra bande, “processi del secolo”, surrogati di controversie dottrinali per alimentare e perpetuare il trip da iper-ventilazione mediatica. Nella “Chiesa di Papa Francesco” – si potrebbe azzardare, abbinando due tra le più abusate cantilene del corrente gergo ecclesialese – “si è sempre fatto così”.
Dentro questo gioco di società, che facilmente diventa gioco al massacro, in tanti presidiano saldamente la propria postazione per semplice mestiere. Conoscono gli schieramenti e i codici d’accesso. Sanno dove mettere le mani. In qualche caso, c’è anche dell’altro: stringere il Papa alla sua caricatura di demiurgo pasticcione travolto da processi da lui stesso favoriti può tornar utile anche per tirare la volata a presunti e aspiranti rifinitori-risolutori dei problemi rimasti aperti.
Molti di coloro che partecipano a questo singolare gioco di società appaiono talmente presi – e persi – nei suoi riti e nelle sue parole d’ordine da non percepire (o – peggio – da non tenere in alcun conto) l’estraneità ontologica, il sostanziale disinteresse delle moltitudini dei propri contemporanei alle questioni e alle dispute che tanto li tengono occupati. Se alzassero un momento lo sguardo dal loro tavolo da gioco, si accorgerebbero che dietro, davanti e intorno a loro non c’è più nessuno. L’umanità se n’è andata, mentre loro si accapigliano in estenuanti rese dei conti intorno a liste di priorità ingiallite da decenni. Anche l’intento dichiarato di raggiungere i “lontani” è degradato in slogan retorico, e non serve più nemmeno a far carriera. Mentre il massimo della introversione e auto-referenzialità ecclesiale si tocca con mano proprio nella Chiesa che crede di risolvere da sola i suoi problemi. La Chiesa ingolfata e complicata dalle linee guida, i protocolli, le profilassi, le procedure, i doverismi ricattatori, le astrazioni nominaliste. Quella che pretende di auto-purificarsi per via giudiziaria, fino a trasformarsi nel tribunale fallimentare di se stessa.
Una Chiesa così è letteralmente repellente. Da una Chiesa così si scappa. E anche questa diserzione attesta in controluce e per contrappunto che la salvezza promessa da Cristo non è roba per camarille, e ha come orizzonte il mondo. Per questo, a modo suo e per quello che vale, anche l’Apologo di Fabio Fazio ha suggerito qualcosa di interessante. Il Papa che da Fazio parlava da sacerdote lo hanno comunque ascoltato in tanti. Hanno ascoltato un pover’uomo, non una rockstar spirituale. Lo hanno ascoltato perché ha detto anche cose di confortante buonsenso cristiano.
Se invece un plotone di domande “azzeccate” lo avessero incalzato su questioni che tanto tormentano vescovi e teologi, cardinali e monsignori – abusi sessuali del clero, modelli e metodi di management ecclesiale per una “Chiesa in uscita”, messe in rito antico, procedure sinodali, preti da sposare, riforma della Curia –, lui magari se la sarebbe cavata egregiamente, come è capitato in altre occasioni. E magari in tanti, e chissà quanti, avrebbero cambiato canale.