Nella guerra fratricida dell’Ucraina «l’unico a godere è il diavolo, che già danza sulle teste dei cadaveri, e gioca con il dolore delle vedove, degli orfani e delle madri in lutto». Così aveva detto Anba Raphael, Vescovo copto ortodosso del centro del Cairo, fotografando con lucidità profetica la situazione poche ore dopo l’ingresso dell’esercito russo in territorio ucraino. E se il diavolo adesso gode per il dolore innocente, si frega le mani anche per le conseguenze indirette che quella guerra potrà avere sui tempi lunghi.
Tra le altre cose, le bombe che dilaniano corpi nel territorio ucraino spazzano via dal campo per chissà quanto tempo anche l’attesa – accesasi con il cammino ecumenico iniziato dopo il Concilio Vaticano II – di veder ricomporsi in pienezza l’unità sacramentale tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Sembra sfumare il Kairos che poteva essere colto nel tempo propizio rappresentato dagli ultimi due Pontificati: quello di Benedetto XVI, che anche da cardinale Prefetto dell’ex Sant’Uffizio aveva riproposto la sua famosa “formula-Ratzinger”, secondo cui, riguardo alla dottrina del Primato del Successore di Pietro, «Roma non deve richiedere dall’Oriente niente di più rispetto a quanto era stato formulato e vissuto nel primo millennio»; e il Pontificato di Papa Francesco, che il 30 novembre 2014, parlando al Fanar, davanti al Patriarca ecumenico Bartolomeo, nella festa di Sant’Andrea, aveva detto che per giungere alla piena unità coi cristiani ortodossi la Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune».
Ora la speranza di riconciliarsi col semplice confessare insieme la comune fede degli apostoli sembra essere evaporata. Prima ancora delle bombe in Ucraina, l’avevano già sabotata gli scismi esplosi negli ultimi anni tra il Patriarcato di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, in seno all’Ortodossia.
In una intervista del 2004 sulla rivista 30Giorni, proprio il Patriarca ecumenico Bartolomeo, parlando dello scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, aveva indicato la radice di quella frattura nelle «prime manifestazioni del pensiero mondano nella Chiesa». Nell’esperienza delle Chiese ortodosse, il riferimento alla penetrazione del pensiero mondano nelle dinamiche ecclesiali ha poco a vedere con la tradizionale sudditanza ai poteri temporali che i polemisti cattolici da sempre rimproverano al cristianesimo orientale, e che può essere semplice riconoscimento della propria genetica inermità mondana, la stessa di Gesù e di San Pietro («Il mio regno non è di questo mondo», Gv 18, 36; «Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni istituzione umana», 1Pt 2, 13). A portare rovina e seminare apostasia è la zavorra dell’orgoglio clericale in quanto tale. La hybris che contagia gli apparati ecclesiastici ogni volta che le Chiese, a qualsiasi livello, costruiscono e perseguono un progetto di auto-sufficienza e di auto-affermazione sulla scena del mondo.
Nessuna realtà ecclesiale è immune dalla tentazione di un simile snaturamento, come ripete anche Papa Francesco (citando Henri de Lubac) ogni volta che chiama in ballo la cancrena della «mondanità spirituale», quel «darsi gloria l’un l’altro» da lui riconosciuto come peggiore delle miserie umane e delle ambizioni di potere dei «Papi concubini».
Nel tempo presente, anche i vertici della Chiesa russa hanno manifestato sintomi evidenti e singolari di questa hybris. Non tanto per il semplice fatto di essersi appoggiati al disegno politico del Cremlino per guadagnare prestigio. E nemmeno quando hanno bullizzato qualche Chiesa sorella ortodossa facendo pesare il proprio peso numerico e economico (cosa brutta, ma può essere rubricata nel repertorio delle miserie umane). La hybris si è affacciata quando si è cominciato a pensare, parlare e agire come se, nell’attuale condizione della fede sulla terra, il peso politico del Patriarcato e la strategia politica russa fossero in se stessi fattori di cristianizzazione o di ri-cristianizzazione del mondo.
Già nel maggio 2016, mentre Patriarcato di Mosca si preparava a dare forfait al tanto atteso Concilio pan-ortodosso convocato dal Patriarca Bartolomeo, il Patriarca di Mosca Kirill aveva detto che la Chiesa russa, nell’attuale fase della storia, aveva il compito di «cambiare l’atteggiamento verso la fede e il cristianesimo in molti Paesi di Europa e d’America». Il Metropolita Hilarion di Volokolamsk, seconda figura di rilievo internazionale del Patriarcato di Mosca, nell’aprile 2016 presentava la Russia di oggi come l’unica nazione di rilievo in cui «si espande la fede e la Chiesa», contraltare di un Occidente totalmente annichilito dall’ateismo e dal secolarismo. In quei mesi, Hilarion esaltava il Patriarcato di Mosca come titolare del «secondo posto nel mondo» in quanto a numero di credenti, dietro alla Chiesa cattolica, separando i battezzati russi anche da tutti gli altri cristiani di fede ortodossa. Nelle dichiarazioni dei principali esponenti del Patriarcato si affacciava la teorizzazione di una specie di “Momento russo-ortodosso”, che per certi versi assomigliava – nella distanza dei contenuti ideologici e delle prospettive geopolitiche – al “Catholic Moment” imbastito negli USA negli anni Ottanta del secolo scorso, quando teologi cattolici neoconservative accreditavano il vincente modello liberal-capitalista occidentale come realizzazione storica della dottrina cattolica e della sua “visione antropologica”.
Sic transit gloria Ecclesiae. Così passa la gloria della Chiesa, ogni volta che la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non riconosce che il suo fiorire può accadere nella storia solo come riflesso della grazia operante di Cristo. Ogni volta che la Chiesa, qualsiasi Chiesa, pretende di porsi nella storia come soggetto auto-fondante, intenta a affermare da se stessa la propria rilevanza nella scena del mondo, «la cui figura passa» (Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 30 giugno 1968).
Ora Kirill è nella polvere. Anche le basi del suo potere patriarcale sembrano sfarinarsi, insieme a ogni disegno di espansione/proiezione globale-universale dell’entità russo-ortodossa. Nel 1991, prima di tutti gli scismi interni all’Ortodossia avvenuti in Ucraina, erano 15mila le parrocchie ucraine appartenenti al Patriarcato di Mosca, mentre in tutta la Russia ne erano rimaste solo 6mila.
Nella tragedia della guerra in Ucraina, che è anche una tragedia cristiana, in questo momento così clamorosamente disseminato dei segni del tempo finale, c’è chi ha avuto finora l’unica preoccupazione di estorcere anche a Papa Francesco uno sbratto di catarro pontificio da far piovere sul Kirill, “l’amico di Putin”. A questa farsa grottesca è ridotta anche buona parte dell’inutile agitarsi intra-ecclesiale e inter-ecclesiale, sospeso all’ansia di posizionarsi dalla parte giusta, esibire sdegno a ritmi convulsi nelle campagne contro i reprobi di turno. E così esorcizzare/rimuovere il silenzio di sgomento e preghiera che può suscitare in ogni cuore cristiano anche la tragedia della guerra in Ucraina, che è anche tragedia cristiana.
Papa Francesco prega, a chiama alla preghiera. Volevano anche da lui la “condanna” di una Chiesa che uscirà forse dilaniata, castigata e umiliata dagli eventi del 2022. Volevano anche da lui che almeno emettesse sanzioni morali ad personam verso Kirill. Lui continua a trattare Kirill da fratello. Lo fece a Cuba, nel loro incontro del 2016. Lo ha fatto ancora nel pomeriggio di mercoledì 16 marzo, nella video-chiamata avuta con il Capo della Chiesa ortodossa russa nel 21esimo giorno della guerra in Ucraina. Una conversazione concordata per parlare del «ruolo dei cristiani e dei loro pastori nel fare tutto perché prevalga la pace».
Il Papa – si legge nella sintesi della conversazione fornita dai media vaticani – ha convenuto con il Patriarca che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù». Il Vescovo di Roma ha condiviso con Kirill il riconoscimento di essere «pastori dello stesso Santo Popolo che crede in Dio, nella Santissima Trinità, nella Santa Madre di Dio: per questo – ha proseguito Papa Francesco – dobbiamo unirci nello sforzo di aiutare la pace, di aiutare chi soffre, di cercare vie di pace, per fermare il fuoco”. Nel colloquio, entrambi hanno messo in risalto l’importanza dei negoziati in corso per fermare la guerra, perché – ha detto il Papa – «chi paga il conto della guerra è la gente, sono i soldati russi ed è la gente che viene bombardata e muore’». Un tempo – ha aggiunto il Successore di Pietro – «si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così. Si è sviluppata la coscienza cristiana della importanza della pace”. Papa e Patriarca hanno convenuto sul fatto che «le Chiese sono chiamate a contribuire a rafforzare la pace e la giustizia», perché le guerre – ha concluso il Vescovo di Roma – «sono sempre ingiuste. Perché chi paga è il popolo di Dio. I nostri cuori non possono non piangere di fronte ai bambini, alle donne uccise, a tutte le vittime della guerra. La guerra non è mai la strada. Lo Spirito che ci unisce ci chiede come pastori di aiutare i popoli che soffrono per la guerra». Parole cristiane.
Il 12 febbraio 2016, nel loro unico e storico incontro all’aeroporto dell’Havana, Kirill aveva dispiegato davanti al Papa un vasto programma per la alleanza di “cooperazione” tra le loro Chiese, volto a «difendere i cristiani in tutto il mondo», far rispettare la vita umana, impedire la guerra (sic) e rafforzare «le basi della morale personale, familiare e sociale». Invece il Successore di Pietro aveva pronunciato anche allora davanti a tutti parole scarne, semplici, definitive. «Abbiamo parlato come fratelli, abbiamo lo stesso Battesimo, siamo Vescovi», aveva raccontato Papa Francesco dopo l’incontro con Kirill. Anche in quell’incontro, architettato come un summit politico in un hangar di un aeroporto cubano, nelle parole del Papa c’era la silenziosa e paziente supplica che Cristo e il suo Spirito facessero cadere maschere e simulacri, per far balenare davanti agli occhi dell’alto gerarca ortodosso che nelle circostanze presenti la comunione tra cristiani è chiamata a confessare insieme davanti al mondo il dono fiorente del battesimo, più che fare “sante alleanze” contro i tempi cattivi.
Adesso, Papa Francesco ha annunciato la prossima consacrazione di Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, per chiedere che la guerra finisca. Anche il Patriarca Kirill ha chiesto a tutti i fratelli e sorelle della Chiesa ortodossa russa di leggere ogni giorno, durante la Grande Quaresima, la preghiera alla Santissima Theotokos, la Madre di Dio, per implorare attraverso la sua intercessione il ritorno della pace.
Prima della conversazione in video-chiamata tra Papa Francesco e il Patriarca russo, Censori vecchi e nuovi del Vescovo di Roma avevano mirato a puntellare la grottesca “narrazione” di un Pontefice totalmente irretito da calcoli di equilibrismo diplomatico. Bersagliavano ogni sua mossa, gli rinfacciavano la scelta di non emettere fatwe contro Kirill e l’Ortodossia russa. Movenza carica di echi biblici ben più suggestivi per il presente.
Nessuno tocchi Caino. E nessuno scagli la prima pietra. Nel corso del tempo, nessuna compagine ecclesiale – a partire dalla Chiesa cattolica – è rimasta immune dalla hybris di rivendicare perfino la propria libertà dai poteri secolari per perseguire progetti di egemonia, come fossero fattori di cristianizzazione del mondo. La stessa hybris egemonica può trovarsi nelle parole d’ordine dei circoli cristiani illuminati che oggi pretendono di orientare e cristianizzare i flussi scomposti della modernità occidentale con operazioni di marketing culturale. E se qualcuno, da qui in avanti, penserà di approfittare della défaillance del Patriarcato di Mosca per regolare conti in sospeso o riequilibrare rapporti di forza tra i diversi soggetti ecclesiali, dentro e fuori l’Ortodossia, fornirà una conferma oggettiva del fatto che tanti apparati e dinamiche ecclesiastici sono diventati un parco giochi per funzionari del sacro. Teatro di scena per ceti e nomenclature solerti nel posizionarsi e promuovere appelli, senza saper guardare la tragedia cristiana che si consuma nella guerra in Ucraina.
Il cammino verso la piena comunione dei battezzati cattolici e ortodossi, se e quando ripartirà, potrà rifiorire solo come miracolo e profezia tra le macerie dell’ecumenismo, mischiate a quelle della guerra in Ucraina. E potrà arrivare a compimento solo se vibrerà anch’esso della domanda di Cristo che attraversa e inquieta i secoli. («Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?». Lc 18,8).