senza mandato

Appunti di Gianni Valente

Le bombe su San Lorenzo e l’Angelo con gli occhiali. Appunti da una storia di famiglia

Roma, San Lorenzo, 19 luglio 1943. Giusto 80 anni fa. Quella mattina, nonna Maddalena è uscita da casa per andare a comprare qualcosa al razionamento. e ha chiuso la porta a chiave, con dentro mamma Anita e zio Pierino, il più piccolo, che ha compiuto un anno da pochi giorni.

Mamma Anita di anni ne ha sette. È successo che il giorno prima lei ha litigato con Fiorina, la figlia di Rosina la giudia, e nonna non vuole altre storie. Per questo li ha chiusi dentro a chiave. Non vuole che scorrazzino per i pianerottoli mentre lei non c’è, magari per continuare a bisticciare.

Nel quartiere, nonna Maddalena alcuni la chiamano “la tedesca”. Magdalena Wahl, è arrivata a Roma dall’Ungheria per l’Anno Santo del 1933, quello della Redenzione, a 26 anni, e ci è rimasta, dopo aver incontrato e sposato nonno Marino. La sua famiglia contadina di origine tedesca è stanziata a Nemethkir, che in ungherese vuol dire proprio “Villaggio dei tedeschi”. I genitori sono morti presto, e lei è cresciuta insieme alla famiglia di zio Bachi. Di Roma l’hanno folgorata anche i tramonti di febbraio e di marzo a Villa Borghese. Quando è Carnevale, prepara le frappe per tutti i bambini del palazzo. Anche le vicine, ogni tanto, le chiedono di fare qualche torta. E lei non fa mai mancare le pizze fatte in casa e guarnite di cioccolato alle feste dei suoi quattro figli. Si è tutti poveri, e anche per questo almeno i bambini non si accorgono nemmeno, di essere poveri. Le scarpe si comprano d’estate, si comprano bianche. Perché poi nonno Marino ha comprato una tinta fatta apposta per le scarpe e le stesse scarpe, d’inverno le tinge di nero. Se nel frattempo il piede è cresciuto, sono dolori.

Al suono delle sirene, la vicina di pianerottolo, Cleofe Teppati, esce di corsa da casa, cerca di aprire la porta di Maddalena e si accorge che è chiusa a chiave, con dentro Anita e Pierino. Allora rompe la serratura, e tutti insieme scappano verso il rifugio che ha l’entrata vicino al tunnel di Santa Bibbiana.

Papa Luciani Beato e lo scandalo di “rendere facile” la salvezza

Albino Luciani diventa Beato. Domenica 4 settembre, Papa Francesco celebra la liturgia di beatificazione del suo predecessore, salito sul Soglio di Pietro per soli 34 giorni, tra l’agosto e il settembre del 1978.
Il “Papa di settembre” (come lo ha definito una recente pubblicazione in lingua inglese) non viene proclamato beato per il breve tempo in cui, sulla terra, è stato Vicario di Cristo. Stefania Falasca, vice-postulatrice della Causa di canonizzazione e oggi vice-presidente della Fondazione vaticana Giovanni Paolo I ha rimarcato con forza che non si “beatifica” un pontificato. Piuttosto, si proclama davanti al popolo di Dio e davanti al mondo che il cristiano, il sacerdote, il vescovo Albino Luciani – divenuto alla fine della vita Vescovo di Roma e Successore di Pietro -, visse una intima unione con Dio, realizzata dalla Grazia di Cristo, e manifestatasi in lui nelle virtù della Fides Romana, esercitate “in grado eroico”: quelle teologali della fede, della speranza e della carità, insieme a quelle cardinali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza. Quelle che Papa Giovanni XXIII, nel Giornale dell’anima chiamava «le Sette lampade di santificazione».
Intorno a quelle sette virtù, le sette lampade della vita cristiana, è intessuto tutto il breve e imparagonabile magistero pontificio di Giovanni Paolo I. Erano esse l’incipit a cui voleva improntare tutta la sua predicazione. Erano le sette virtù il “programma” da svolgere nelle sue prime catechesi, facendole precedere da quella dedicata all’umiltà. Riuscì a realizzare solo quelle dedicate alle tre virtù teologali.
Nell’Aula Nervi, Papa Luciani fece risplendere la fede aiutandosi con le citazioni di Trilussa e Sant’Agostino, per attestare che la fede non consiste nel “credere che Dio esiste”, ma nell’affidarsi a Lui («Questo è anche credere in Dio, che è certamente più che credere a Dio»), e riconoscere che quella di Cristo «Non è una dottrina nostra», e noi «dobbiamo solo custodirla, dobbiamo solo presentarla».

Gorbaciov, Sant’Agostino e la guerra in Ucraina

De mortuis nihil nisi bonum. Di chi è morto si dica solo il bene. Ora che ci ha lasciato, in tanti riconoscono la grandezza di Mikhail Gorbaciov (1931-2022), e rendono omaggio postumo a colui che fu l’ultimo Presidente dell’Unione Sovietica. Le mille sirene della propaganda occidentalista approfittano anche della sua morte per spargere su social e giornali un altro po’ di veleno contro i russi, accusati in massa di aver quasi cancellato il loro illustre connazionale dalla memoria collettiva, non riservandogli alcun onore come Padre della Patria, o addirittura svillaneggiandolo come complice del collasso dell’ultimo Impero guidato da Mosca.

Quando Gorbaciov era nel pieno della sua battaglia per la perestrojka (riforma sociale del sistema sovietico dall’interno), che sarebbe culminata nel putsch dell’agosto 1991 – il drammatico e patetico colpo di Stato fallito, tentato dei settori più rigidi della nomenclatura sovietica, che per eterogenesi dei fini rafforzò Boris Eltsin e la sua banda di liquidatori dell’Urss -, i circoli occidentali lo guardavano annaspare. E invece di offrire sponde al suo tentativo di cambiamento graduale del sistema, lo affossavano facendo i calcoli su quanto potevano guadagnare dal suo fallimento. Di lì a poco, tutto il Capitale occidentale e le istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca europea di ricostruzione e sviluppo) avrebbero steso tappeti rossi all’affossatore Eltsin (tenace affossatore di Gorbaciov, feroce nel denigrare anche pubblicamente il suo antagonista) e al suo mix di ultra-nazionalismo russo alcolico e ultra-liberismo disegnato dai cervelli dei suoi “Chicago-Boys” leningradesi.

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